Lo scacco del realismo

Sempre più spesso mi capita di leggere libri (mi riferisco a quelli recenti, stampati in Italia) o di dare loro un'occhiata e, tendenzialmente, mi trovo di fronte allo scacco del realismo.
Molti scrittori di oggi guardano la realtà attraverso il filtro - sembra un paradosso - del realismo e scambiano questo stesso filtro per l'oggetto del loro raccontare.
Ma dietro tale difficoltà, dietro lo scacco del realista che non riesce a cogliere la realtà, c'è, anche, un problema annoso legato al provincialismo di certa parte dell'élite (?) culturale italiana. 
Tomasi di Lampedusa aveva ragione quando sosteneva che in Italia la letteratura umoristica e, in special modo, quella legata al nonsense probabilmente non attecchiranno mai. Per questo ai letterati italiani pare opportuno, e probabilmente necessario,  oggi come ieri, trovare assai divertente l'ironia di Ariosto e Manzoni (per inciso, io sono fra coloro che venerano Messer Ludovico e l'Alessandrone nazionale). La riflessione di Lampedusa, di un 'isolato', lontano dai salotti e dal vacuo narcisismo di certo mondo legato alle Lettere, non è di poco conto e aiuta a comprendere meglio la sua opera e la sua vera natura di scrittore: straordinaria quando percorre i sentieri del decadente e del visionario, persino con incursioni nel fantastico (il riferimento è alla novella Lighea); meno felice quando si confronta con un realismo non pienamente metabolizzato, come nel racconto Regalo di Natale, ma anche i natali in casa di Padre Pirrone, nel Gattopardo, segnano una caduta di stile, imbevuta di cascami verghiani un po' forzati).

Sono d'accordo con Tomasi: gli italiani, guarda caso, sono poco europei. 
Difficile trovare altre strade, proporre nuovi progetti. E penso, ovviamente, anche al cinema italico che nel calco del calco pare aver trovato un rassicurante perimetro espressivo. Ne è una riprova Lacci di Daniele Lucchetti - con la Morante che fa la Morante - ennesimo epigono di un cinema che fu, stantio nella scrittura, superficiale nella sua presunta ed esibita profondità, verboso fino al parossismo. Non ho letto il libro da cui è tratto il film, ma l'opera di Luchetti è intrisa di un frusto medio progressismo che imbarazza e nulla ci dice, se non della sua aspirazione a rivolgersi ad un pubblico borghese quanto basta per non annoiarsi.
Forse sbaglio, ma credo che per raccontare (soprattutto) questa realtà non puoi scambiare il mezzo per l'oggetto (o nel caso di Lacci il metalinguismo per il Vero).
Detto in parole povere: il più grande realista è il visionario e nel nostro presente in cui individualismo, selfismo, presentismo dominano devi affidarti prima di tutto alla fantasia, dopo esserti 'sporcato' le mani con il reale.
 
Per ritornare al mondo di carta, diversi libri sono scritti in maniera accurata (ci sarebbe da dire qualcosa sulla patologica proliferazione del romanzo, ma preferisco sorvolare), ben costruiti (quasi in maniera geometrica, anche grazie alla bravura di un buon editor), discretamente raccontati. Eppure - capita solo a me? - trovo che difettino proprio di fantasia. Magari riescono in qualche modo a emozionare, ma non spesso - da quel che leggo - a far sognare. Si dimentica, forse, una lezione importante? Quale? La seguente: il più grande realista la realtà la inventa. Perché la conosce e la osserva con lucidità. 


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