Il gattopardo: la trama e la metafora decadente dell'esistenza.
«Nunc et in hora mortis
nostrae. Amen».
Si apre con tale formula liturgica il Gattopardo – quasi un’epigrafe
riassuntiva della materia trattata – e subito ci troviamo in medias res,
durante la fine della recita del rosario quotidiano, nel palazzo del Principe
di Salina, protagonista del romanzo, intorno al quale si incentra la narrazione
in momenti ‘presi a caso’ nell’arco di cinquant’anni, dal 1860 al 1910. Saranno
cinquant’anni in cui si assisterà all’inesorabile declino della famiglia
Salina, nobile casata fedele ai Borbone. Il Gattopardo, dunque, è una
grande e sontuosa metafora di morte che prende a pretesto la storia per
costituire la dimensione mitica necessaria alla realizzazione della sua funebre
poetica. Questa la causa, insieme alla concezione di Lampedusa che i grandi
autori non abbiano bisogno di inventare situazioni e vicende, del ‘non
intreccio’ del romanzo, riassumibile in poche righe: Tancredi Falconeri, nipote
e figlio adottivo di Don Fabrizio, si unisce ai garibaldini poiché è abbastanza
cinico e spregiudicato da capire che è l’unica cosa da fare per impedire a
Garibaldi di ‘combinare’ la repubblica; ciò che va profilandosi, infatti, è una
lenta sostituzione di ceti e il giovane non vuole che la situazione gli sfugga
di mano privandolo dei suoi privilegi: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è
bisogna che tutto cambi» dirà allo zio. Don Fabrizio intuisce la
paradossale verità nelle parole del nipote e, in un primo momento, sembra
essere convinto della veridicità della sibillina predizione, ma saranno i fatti
a smentirla in seguito ed egli sarà costretto a mutare la propria opinione. Il
mondo nuovo che sta per nascere non piace assolutamente al Principe che, tuttavia,
non fa nulla per impedire l’ascesa del nuovo ceto costituito dai mezzadri e
dagli amministratori che si sono arricchiti alle spalle dell’aristocrazia;
anzi, la favorisce quando ‘incoraggia’ il fidanzamento fra il nobile e
squattrinato Tancredi e la ricchissima e bellissima Angelica, figlia di Don
Calogero Sedara, emblema del nuovo ceto che ha costruito la propria fortuna
anche, e soprattutto, illecitamente. Tancredi, ambizioso ed intelligente, per
fare carriera ha bisogno della dote di Angelica, mentre quest’ultima necessita
del blasone e della nobiltà del primo per creare quella continuità
indispensabile tra passato e presente. Tutto ciò avverrà nonostante Concetta,
figlia di Don Fabrizio, sia profondamente innamorata del cugino. Dalla sintesi
fra i due giovani spregiudicati arriverà il ‘nuovo’ nei confronti del quale Don
Fabrizio non nutre più alcuna illusione: rifiuta emblematicamente l’offerta dei
piemontesi, tramite Chevalley, di diventare senatore; al contrario farà il nome
di Don Calogero Sedara quale suo sostituto ideale. Dopo il ballo in casa
Ponteleone, in cui il Principe di Salina sente incombere ancor più il
disfacimento del proprio gruppo sociale, comincia la sua attesa della morte,
bramata quale termine di tutte le angosce e fonte di pace perpetua, in un
crescente cupio dissolvi che viene soddisfatto in un piccolo albergo di
Palermo. Dopo, è lo sfacelo più totale: le tre figlie di Don Fabrizio, nel
1910, ormai bigotte zitelle, trascorrono il tempo in pratiche religiose e a
collezionare reliquie; i ricordi per Concetta sono ormai solo fonte di dolore e
questo spiega la decisione di buttare via anche il cane impagliato Bendicò,
animale tanto caro al padre: «Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere
livida».
La sensibilità decadente, sottesa
in una cornice da romanzo storico che ha solo una funzione di pretesto, è
chiara sin dalle prime righe, si insinua nelle profondità della narrazione e
costituisce uno dei caratteri salienti del modo lampedusiano di narrare, più
che la vicenda, il riverbero che l’accadere dei fatti ha nell’animo del
protagonista. Ciò che interessa Tomasi, infatti, è proprio questo: la
costruzione della parabola funeraria di Don Fabrizio di fronte alla percezione
della decadenza del suo ceto che, per analogia, richiama anche quella del suo
corpo.
Nella sostanziazione della sua
metafora mortuaria, Lampedusa non può fare a meno di rielaborare le
caratteristiche della Sicilia per trasfigurarla nella mitica isola senza tempo
violentata dal sole ed immobile nel suo sonno secolare. Tutto intorno al
Principe di Salina sa di morte e il clima ed il paesaggio descritti nel Gattopardo
non sfuggono alla regola poiché mai relegati ad avere la funzione di sfondo
degli avvenimenti, mai allusi, ma fattori determinanti sui quali si insiste
ripetutamente e con voluta ridondanza.
La Sicilia di Tomasi viene,
dunque, raffigurata in un’orgia di colori, tanto più ridenti quanto più
mortuari, invasa dalla luce abbacinante del sole e soffocata dallo strapotere
del clima, evocato reiteratamente, e che infierisce con la propria arsura e col
terribile calore sulla terra, contribuendo a modificare le modalità di vita e
gli atteggiamenti degli uomini, a formare quella crosta che, come spiegherà Don
Fabrizio a Chevalley, è peculiare dei suoi abitanti.
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