L'Italia che non c'è: tra Pinocchio e il Gattopardo, la farsa dell'immobilismo


Subito dopo essere stato derubato dal Gatto e dalla Volpe, Pinocchio corre dal giudice a denunciare il fattaccio. Collodi, risorgimentale deluso e penna beffarda e di saturnini umori, descrive uno scimpanzé vestito da giudice, con la barba bianca e gli occhiali senza le lenti. Sentite che fa: “...lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse; quindi sentenziò.
Mentre leggiamo, però, prima ancora che la sentenza venga emessa, qualche cosa non torna. Uno scimpanzé al posto del giudice implica, naturalmente, un atteggiamento derisorio dell'autorità. Vero è che il giudice ha la barba bianca - a suggerire saggezza, dunque, o almeno la speranza di questa - ma quegli occhiali senza lenti sanno di finto, veicolano la sensazione di una forma buffonesca e, tutto sommato, inattendibile e, per questo, pericolosa.
Ecco la sentenza nelle parole dello scimpanzé: - Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione -.”
Siamo al paradosso. Non è difficile intuire, però, dietro una certa propensione al rovesciamento tipico della favola di Collodi la satira nei confronti dell'Italia Unita e delle sue istituzioni. A suffragare ancora di più tale tesi è la descrizione dei gendarmi: due mastini agghindati all'occorrenza (come vuole la forma, insomma) pronti a tappare la bocca del burattino per impedirgli di protestare. Intendiamoci: non due gendarmi che si comportano da mastini, è molto diverso. Anche qui siamo di fronte ad un processo di animalizzazione derisorio che tradisce le insofferenze nei confronti di un potere centrale lontano dai bisogni dei più deboli, ottuso, opprimente e animalesco.
L'Italia unita non piace a Carlo Lorenzini e nonostante abbia combattuto per le guerre d'indipendenza (le prime due) più volte nelle Avventure di Pinocchio lo scrittore sbeffeggia il potere costituito e ci racconta quanto l'unificazione sia stata solo apparente, poiché gli squilibri, le ingiustizie, la miseria del popolo sono rimasti immutati. 
Il popolo, infatti, è il protagonista della favola collodiana. L'aristocrazia è evocata, rimane lassù, nascosta e pericolosa, ha i suoi emissari scimmieschi e canini che fanno rispettare la legge (del più forte) e sono il suo braccio armato.
La grande assente? La borghesia. Dov'è? Nelle peregrinazioni di Pinocchio compare forse una sola volta, trasfigurata: mi riferisco ai tre medici (il corvo, la civetta, il grillo parlante; quest'ultimo è quello che fa la miglior figura) che discettano in maniera ridicola sulla salute del burattino. Anche qui ritorna l'animalizzazione declinata in chiave ironico satirica.
Allora Collodi, il toscano Collodi, andrebbe a raccontare l'antistoria dell'Italia post risorgimentale, ovviamente in chiave favolistica, alla stessa stregua del romanzo antistorico che ha in Verga, Pirandello, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Salvatore Satta i suoi alfieri.
E se pensiamo che caratteri mitici affiorano prepotenti nella sostanziazione di personaggi quali Gesualdo Motta o Don Fabrizio o della stessa Sicilia del Gattopardo o della Nuoro di Satta il cerchio si chiude: abbiamo la necessità del mito e della fiaba per raccontare meglio l'uomo e la vita o, per rimanere nel nostro caso, l'Italia.
Niente meglio della letteratura racconta la Storia. In tal senso abbiamo bisogno di riscrivere il canone della storia della letteratura e di 'riaggiustare' i manuali sui quali i ragazzi si formano: meno Alfieri, meno Leopardi, meno D'Annunzio.
Più Collodi, più Gozzano, più Tomasi di Lampedusa, più Sciascia, più Salvatore Satta. 
E perchè no? Più Salgari.

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