Pinocchio di Matteo Garrone: straniante metafisica dell'oggi.

Matteo Garrone rilegge la favola di Collodi restituendole sia la sua dimensione ancorata al mondo contadino della Toscana post unitaria che il coté cupo e inquietante che caratterizzava alcuni passi delle Avventure di Pinocchio (la bambina morta nella casina bianca; gli assassini che impiccano il burattino senza fili).
E da un autore come Garrone ci si deve aspettare proprio quello che fa: tradire la favola. Come? Accentuandone i toni ferali e luttuosi e sostanziando le immagini attraverso una particolare diottria mortuaria che sfocia, a volte, nel macabro. Attraverso inquadrature che esaltano la profondità di campo emerge il vuoto di spazi che fagocitano in una tensione metafisica che via via appesantisce la visione del film.
Sì, è vero che Garrone fa bene a non sottomettersi ad un mero (e acritico) approccio calligrafico o ad una meccanica messa in scena, ma ciò non toglie che la sua riuscita sintesi di istanze commerciali con quelle autoriali rischia di deludere chi, come il sottoscritto, subisce il fascino delle invenzioni collodiane soprattutto per quel gusto ironico, dissacrante, anarcoide e paradossale che percorre tutta la narrazione e che è cifra ritornante dell'umorista fiorentino.
Anche la vis comica è funerea, marcescente, putrescente (ben rappresentata del Gatto e della Volpe: mai così brutti, sporchi e cattivi). 


L'aspetto più interessante della rivisitazione garroniana di Pinocchio è nella sua straniante fedeltà alla fata turchina, mai così sexy e ambigua, e nel rimarcare quegli aspetti della favola che ben si possono definire allegorici e che raccontano, oggi come ieri, i mali di un'Italia che non è mai stata unita e i suoi squilibri socio politici.
Gli attori, più o meno, fanno la loro parte: Benigni è un accettabile Geppetto e Ceccherini sembra quasi la Volpe, mentre Papaleo appare spaesato nel ruolo del Gatto. 
Sorprende, inoltre, constatare quanto il sorriso sia quasi sempre assente dal viso di Pinocchio.
Sebbene prolisso per eccesso di gravitas e per via di un monostilismo che non sempre è adatto per rendere al meglio le molteplicità tonali ed emotive proprie della fiaba, il film di Garrone resta comunque una scommessa vinta al botteghino ed un interessante esperimento, lontano dalle stomachevoli commediole italiane autoassolutorie che da trenta'anni stanno uccidendo il cinema nella penisola.

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