"Tando sì chi..." di Piera Anna Mutzu

Prefazione



Il nuovo millennio ha dato l’avvio ad un epocale cambiamento antropologico. La rivoluzione legata ad internet e alla realtà virtuale; l’onnipresenza invasiva degli smartphone pronti a fagocitare ogni attimo della quotidianità; la globalizzazione con le sue dinamiche legate al sostentamento delle multinazionali con meccanismi produttivi spesso indifferenti alle condizioni di lavoro degli uomini e al rispetto dell’eco- sistema; gli scenari di un futuro ipertecnologico all’insegna dell’intelligenza artificiale (e forse dell’alie- nazione) stravolgono la concezione del tempo e dello spazio dell’individuo. Di fronte a tanta e tale (in- combente) dispercezione si pone la necessità di un ripensamento radicale dei parametri conoscitivi in un’ottica umanistica che preservi, attraverso la memoria e lo studio del passato, quanto di sacrale vi sia, e di mitico, in tutto ciò che il tempo consegna al perduto, sconfitto da un nuovo a cui arride un presente che appare radioso e immutabile ma che, prima o poi, sarà costretto ad abdicare e a conoscere la fine.


Piera Anna nel suo volume sembra tenere ben presenti tali problematiche e ha una sua visione chiara che sceglie di affrontare con un approccio ancipite: sia l’aspetto etnografico di una Sardegna a cavallo tra Ottocento e Novecento, colta nella sua realtà agropastorale, sia la dimensione narrativa, legata alle vicende di Filumena e Giuanneddu, maschere trasfigurate da una memoria con la quale l’autrice ha avuto frequentazioni sin dall’infanzia, concorrono, infatti, a ricostruire in maniera scientifica – si veda a tal proposito l’ampia bibliografia consultata – che cosa significava essere uomini e donne in un piccolo triangolo della bassa Gallura, in quel tempo, e quale rapporto con il lavoro e la terra caratterizzava quelle esistenze. La narrazione, insomma, lungi dall’alterare, col romanzesco, la veridicità della ricerca scientifica risponde all’esigenza di dar voce, in maniera ancor più chiara e interessante, alla portata etnografica di Tando sì chi…, alla volontà di non perdere ciò che è sacro perché è stato autentico. Tutto ciò risulta ancor più evidente se si pensa, inoltre, che la forma del racconto ha le sue scaturigini nell’oralità, figlia di storie che l’autrice ha sentito raccontare sin da bambina. L’appendice storica che chiude il lavoro non fa che rimarcare, se mai ce ne fosse bisogno, quanto la passione dell’autrice sia sempre sostenuta da precise coordinate temporali che ne dettano una profondità di sguardo sia antropologico che geografico. E il riferimento, in tal senso, a Maria, la maestra itinerante che da uno stazzo all’altro porta la scrittura, è quanto mai significativo.

A questo punto, nonostante la perentorietà etnografica e storica e l’acribia, si travalica nella mitologia del lavoro, dell’amore tra i due protagonisti che in due differenti idiomi dialogano e sempre, tra un battibecco e l’altro, più giocoso che reale, affrontano insieme il cammino faticoso dell’esistenza.

La morte del fortissimo bue Masciu malu in apertura, mentre Giuanneddu è preda del sonno, si connota quale presagio di fine, rappresentato proprio dalla sconfitta della bestia in questione. Quella forza istintuale, legata alla terra e alla ciclicità delle stagioni, evocata da Masciu Malu, è in pericolo. La minaccia verrà momentaneamente depotenziata con l’acquisto di Cincanta, in una vivida rappresentazione dialogica della trattativa con Ghjaseppa Cincanta che ben si presta a scandagliare e l’immaginario del tempo e la prospettiva economico – esistenziale.

È un mondo che muore e che Piera Anna fa rivivere attraverso una prosa intensa, nella rievocazione di tradizioni, costumi, speranze, corredando di note a piè di pagina per meglio comprendere le battute in logudorese e quelle in gallurese. A tal proposito risulta di grande potenza realistica la sintassi che caratterizza le parti dialogate. In tale dimensione, l’italiano è modellato sui calchi e le cadenze del parlato isolano, con sorprendente misura e senza scivolare mai in tentazioni folcloristiche o, peggio, parodiche.

Nelle diverse stesure del presente lavoro, che chi scrive ha avuto modo di leggere con partecipazione, Piera Anna agisce sia rispondendo a urgenze scientifiche, ma anche profondamente emotive. Gli inserti, le correzioni e le aggiunte dilatano i tempi e gli spazi e costruiscono una soffusa aura di poesia intrisa di malinconie virgiliane e arcadiche suggestioni: uno sprofondare dolce in primigeni vagheggiamenti che seduce ed incanta, in un processo scrittorio che si fa catarsi taumaturgica e lucida forma di conoscenza.


È, dunque, un mondo che muore, certo, e l’autrice lo sa, per questo lo riporta alla luce con le uniche due parti del testo che non rispondono ad esigenze scientifiche, ma hanno il compito di aprire e chiudere l’opera e che fanno riferimento proprio alla poesia che dà il titolo al libro, scritta dall’autrice per metà in gallurese e per l’altra in logudorese. Ed è in questa poesia che alita, in fondo, il senso ultimo e intimo del lavoro di Piera Anna. Narrazione etnografica, certo, che prende il via e si chiude quasi nel canto e che, si accennava poc’anzi, travalica nel mito, nel lirismo di ricordi, racconti e memorie, negli anni in cui il tempo pareva oro e scorreva lento seguendo solamente il passo della terra. Allora sì che… le bambine Angheledda e Rosa potevano incantarsi al prodigio del miele… allora sì che… Giuanneddu poteva acquistare i quadri dell’artista Franziscu con un po’ di farina e qualche altra cosa per festeggiare la salute ritrovata… Allora sì che… la sposa Filumena poteva trepidare, nascosta dietro la porta, sentendo due poeti evocarla nel giorno in cui sarebbe convolata a nozze…

Un allora che nelle pagine che seguono diventa ora, un lontano che si fa vicino, un perduto che si concede al presente per essere recuperato. Questo è il libro di Piera Anna Mutzu.

E non è poco.



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