A testa in giù

 La pioggia sul vetro della macchina, all'imbrunire. Noi fermi ad una stazione di servizio. La donna che mi porta a Sassari ha quasi vent'anni in più di me, mi parla di quel lungo film che dodici anni prima, al cinema, l'aveva incantata. Io ascolto, lei ricorda, mentre aspettiamo il suo amico. 
L'inverno del 1996 sarà bello, mi dico. E intanto piove con più insistenza e il racconto della donna forse è aggredito dalla nostalgia.
Come mai il suo amico ancora non arriva? Ci sarà qualche problema?
- Tu hai solo diciannove anni - mormora lei ogni tanto e mi sorride increspando appena le labbra, poi si guarda nello specchietto retrovisore e sospira.
I vetri si appannano, mi piace disegnare col dito forme strane e irregolari.
Lei, in silenzio. A che pensa?
Tre uomini con cappello e impermeabile vengono verso di noi.
Dove li ho già visti?

Sono bambino, anni Ottanta, ai tempi delle scuole Elementari. Coricato sulle ginocchia di zia Giulia aspetto che mi faccia la puntura. Come ogni mattina, prima dell'inizio delle lezioni. A testa in giù osservo i quadri e le fotografie esposte sul mobile, penso alla caramella che riceverò come premio. A testa in giù, forse, ho sempre guardato il mondo: incomprensibile, per me. Labirinto di illusioni, dedalo ammattito invaso da pazzi che corrono di qua e di là assegnando ai loro deliri un senso che solo loro vedono, insignendoli, anche, fra protervia e ingenuità, di chissà quali onori amici di saggezza o ragione.
Sono nato in via Petrarca 31, proprio 'attaccato' alle scuole Elementari: arrivavo sempre in ritardo. Da sempre incline all'insonnia, figlio inquieto del '77, facile alla noia, sedotto dalle fiabe e alla ricerca di qualche cosa che, forse, non esiste: uno come me, a che può servire?
- Ti ha fatto male? - mi chiede zia Giulia, una volta terminata l'iniezione.
- No - mento e ringrazio per la caramella.
Corro a scuola, devo imparare non so che di importante, mi devo preparare a non so cosa di grandioso. Ma io sono svogliato, spesso trasognato, certo un po' bizzoso e bizzarro: ha senso che ascolti chi pensa di avere tante certezze?
Le mia maestra e i suoi schiaffi, le sue urla e le sue preghiere: ma non è che questo mondo di adulti che hanno tanto da insegnare, di quei cosi con due gambe che hanno tante responsabilità e spesso fumano, bevono, giudicano e pontificano, ecco, non è che questo mondo così importante e serio, in fondo, non è che un grande circo?

Sono nato il 18 luglio, da sempre, per me, dolce giorno in cui anche un coso strano come me può essere al centro dell'attenzione senza disturbare nessuno. Le mie estati erano le corse e i giochi. Il gioco: la mia vita. Se non gioco, a modo mio, magari, sto male, impazzisco, mi annoio, vengo torturato da pensieri orribili, di morte. Se non gioco e se non invento qualche cosa. 
Dopo il 18 luglio, per me, l'estate inizia a morire, inizio a pensare all'autunno, lo sento già, lo sentivo soprattutto da ragazzo, in solitudine o in compagnia, mentre guardavo un film nel silenzio di casa, dopo la mezzanotte, oppure quando suonavo con Andrea, il caro vecchio pirata che sa sempre dove mettere l'assolo giusto nel momento giusto o la rullata di batteria che fa sembrare speciale qualche cosa che, probabilmente, non lo è. Si ricorderà ancora il pezzo di batteria della strofa "Il funambolo"?

Oggi. Cammino per una strada di periferia, vicino alla stazione.
Passa un treno, si ferma a pochi passi. 
Scende chi non riesce, nonostante tutto, ad allontanarsi da me.
- Che fai qui? - mi chiede, mentre il treno riparte.
- Mi perdo - rispondo, sorridendo.
- Il prossimo 18 luglio si avvicina.
- Così pare.
Chi è davanti a me domanda: -Ti va di giocare?

A testa in giù, rispondo.




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