L'Orlando furioso e la fuga dall'angoscia

 Non è difficile rintracciare una sostanziale linea di continuità tra l'ironia boccacciana e quella ariostesca: Francesco De Sanctis l'aveva individuata con chiarezza, ma in chiave negativa. L'esperienza poetica di Ariosto, insomma, secondo la prospettiva desanctiana, rappresenterebbe una sorta di principio di dissoluzione della coscienza morale italiana. Non viene colta, così, la straordinaria e rivoluzionaria portata laica della spregiudicata ironia ariostesca, mirante a dissolvere qualsiasi tentativo di costruire, e venerare, verità assolute. In questa lucida coscienza del limite, che anticipa quella che sarà la temperie illuministica, non può non trovare spazio una riflessione esistenzialistica ante litteram, ovviamente trascolorata dal meraviglioso che, si ricordi sempre, svolge funzioni similari al fiabesco.

Il tema della morte e della fine è sempre presente, nell'Orlando furioso, ma quasi mai in maniera prepotente, quanto come allusione (basti pensare alla sua continua dilazione nei duelli che vengono interrotti). Diremmo, anzi, che la corsa pazza dei vari personaggi alla spasmodica ricerca di poter soddisfare desideri e illusioni sia anche un modo per non pensare alla morte stessa, per allontanarne l'idea attraverso un movimento incessante quanto vano e labirintico. In tal senso, il celebre passo in cui Orlando e i paladini sono imprigionati nel palazzo di Atlante e credono di vedere ciò che maggiormente desiderano potrebbe assurgere a simbolo dell'opera tutta. Correre di qua e di là, di su e di giù, senza tregua e senza posa è l'unico modo, sembra volerci dire il poeta, per non pensare proprio alla morte. Sarebbe, insomma, un divertissement, per citare Pascal.

Eppure il rimedio alla fine e alla morte non può, né può esserlo, nell'ottica ariostesca, quello della frenesia e del movimento. C'è dell'altro. Quando Astolfo va sulla luna a recuperare il senno di Orlando e trova tutte le occurenzie nostre, lì, in quell'atmosfera straniante e onirica, capiamo che la luna potrebbe essere davvero il Nulla. Ciò che si perde, infatti, è tutto là, né mai si potrà recuperare. Appare fin troppo evidente quanto l'autore dell'Orlando furioso non si ponga in un'ottica consolatoria: nessuna prospettiva di una dimensione trascendentale, infatti, addolcisce la consapevolezza del caduco e della fine. L'unico rimedio all'angoscia è nella scelta formale di costruire un elenco di tutte le cose perdute. Ancora una volta, dunque, è la forma, in Ariosto, a lenire le sofferenze dell'uomo, proprio come l'ironia e l'autoironia. La luna diviene, così, anche simbolo e correlativo oggettivo del Nulla e della morte, ma in maniera dolce, leggera, poetica, intrisa di una malinconia che ha nella nostalgia del perduto una delle forme più autentiche e universali della finitudine dell'uomo.



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