Recensione della "Pastora" di Alberto Capitta

 Selvaggia, ferina, belluina, macellaia, abbacinata dall'ebbrezza del sangue: è la pastora che viene chiamata a guidare l'Italia per superare un momento di crisi dovuto alla mancanza della carne. L'uomo forte che soddisfa i desideri - segreto inconfessabile di tanti abitanti della Penisola, appartenenti alle diverse classi sociali - è sostituito (e già questa è una trovata interessante) da una donna.

La pastora, ultima invenzione letteraria di Alberto Capitta, edita dal Maestrale, conferma la potenza visionaria dello scrittore e offre interessanti spunti di riflessione non solo per quello che racconta, ma per ciò che manca, non rappresenta e che, proprio per questo, risulta ancora più disturbante.

Partiamo dall'esplicito, con ordine: la pastora incarna il marcio, la putrefazione e la morte che sono legati all'immaginario fascista. Il pericolo che rigurgiti del Ventennio agiscano sottotraccia e possano riprendere il sopravvento è, ammettiamolo, realistico. La pastora è accompagnata da un olezzo insopprimibile ed è costruita sulla perversione deviata, deviante e voluttuosa del sangue e della violenza. Uno spirito corrotto iniziato all'abominio da un vecchio in una casa liminale che rievoca con brutale fascinazione gli scheletri nell'armadio del Fascismo, l'intolleranza e la violenza, fino ad arrivare all'erotizzazione del massacro delle Fosse Ardeatine in un passaggio che sa di tribale, quando la pastora da giovane mette le mani, guidate dal demone, sul sangue versato. 

Capitta rovescia la dimensione vitale e primigenia dell'acqua e le dà connotazioni putrescenti, a sottolineare che il percorso della protagonista eponima non sia legato alla rinascita, ma alla morte. Così come i due momenti che caratterizzano le svolte emotive della pastora si svolgono in luoghi liminari, una casa isolata e un antro buio. Tensioni luttuosamente paganeggianti aleggiano fra le righe della fiaba nera dello scrittore, che si concede ad una lettura in chiave mitica della sua opera.

Fin qui quello che si vede. Ora, l'implicito: mancano il dissenso, la voce critica, gli intellettuali. La pastora guida il governo come se stesse guidando un gregge. Questo sa di allusivamente (anche se in chiave cupa) satirico. Il libro si focalizza sulla protagonista, sul suo percorso iniziatico, sulla sua discesa nell'abominio (non rivelo come arrivi alla soluzione del problema legato alla mancanza di carne, ma è una trovata simbolicamente geniale e raccapricciante) ma non racconta mai di qualcuno che si opponga alla marea d'odio che monta. Qui, a mio avviso, sta l'intuizione più originale di Capitta, quella di NON rappresentare nessuno che si ribelli alla bestialità autofagica che la pastora benedice. Come dire: non vedo chi, oggi, abbia una voce forte da sconfiggere il mostro. Gli italiani sono un gregge di pecore assetato di sangue, basta leggere l'odio che viene vomitato sui social, e costantemente impaurito e bisognoso di semplificazioni perniciose, lontane da qualsiasi approccio critico e pluralistico. Ovviamente questo non è qualunquismo, ma è la proiezione di una paura dell'autore.

Capitta è il più talentuoso scrittore sardo che io conosca, sa giocare con le parole in maniera sorprendente e sa essere necessario e profondo. Per questo possiamo anche accettare un finale un po' troppo chiuso, meno evocativo di ciò che lo precede.

In fondo è una fiaba di anime nere dal taglio distopico che evita con sagacia le trappole di qualsiasi facile retorica attraverso una capacità di trasfigurare, anche grazie ad un'immaginifica scrittura sensoriale, il pericolo di una deriva fascista e nazista anche in un Paese democratico come il nostro che - questa è la mia modesta opinione - vive di suggestioni reazionarie e di velleitari slanci progressisti di facciata.

Una curiosità, forse un problema mio: mentre leggevo La pastora ossessivamente mi tornava in mente un nome e un volto della politica italiana di oggi.

Indovinate quale?




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