"La verità sul caso Harry Quibert"? Un romanzo meno che mediocre

Le quasi ottocento pagine del romanzo di J. Dicker non fanno che riprendere e amplificare i difetti che contraddistinguevano Uomini che odiano le donne: lungaggini (almeno 400 pagine potevano essere tagliate) e prosa sciatta, senza peraltro riuscire a replicarne le virtù, un personaggio azzeccato (Salander), il meccanismo della detection che funziona e una certa cura nel creare l'ambientazione.



Dicker, nel raccontare le peripezie di Marcus, uno scrittore che cerca di scagionare il suo maestro, a sua volta scrittore, dall'accusa di aver assassinato la quindicenne Nola, con la quale aveva avuto una relazione, 33 anni prima, non padroneggia quasi mai l'opera (un po' meglio le ultime duecento pagine, per via di qualche ideuzza interessante). I dialoghi sono ridicoli, la struttura è disorganica e pare avere quale funzione quella di appesantire il racconto. Mancano personaggi di spessore, per via di un continuo subire lo stereotipo e non di rielaborarlo. 
Tra il dogmatismo del canone e il nichilismo di questo l'autore non trova mai una soluzione, incerto se subire l'uno o l'altro.
Come romanzo d'intrattenimento, dunque, funziona poco, soddisferà i palati meno esigenti e gli svogliati recensori che saranno costretti a recensirlo poiché edito da Bompiani.
Il guaio, però, è che Dicker vorrebbe innestare un piano metanarrativo che si rivela da subito fallimentare. Il tema della creazione artistica, del rapporto tra scrittura e vita è trattato in maniera banale, bambinesca, con frasi da baci perugina e sequenze intere che poggiano sul ridicolo involontario. Il parallelo scrittura-boxe non è mai inserito in una dimensione che contempli riferimenti a tecnica. Il tutto pare dominato da un idealismo crociano che trasforma la complessa opera dello scrittura in una corriva rappresentazione della battaglia. Ancor più becero e privo di interesse appare il rapporto allievo-maestro. Quibert (il maestro) si accorge che l'allievo (Goldman Marcus) è destinato a diventare il più grande scrittore americano perché in un'aula universitaria si alza e davanti a tutti afferma di amare il sesso orale oppure perchè si fa rompere le ossa sul ring da un avversario di 30 kg in più. Proprio così, queste sono le radici del talento da scrittore di razza che il maestro rinviene nell'allievo.

Stereotipato, prolisso, mal strutturato, infarcito di dialoghi da ipogeo televisivo, fallimentare e banale nella sua dimensione metaletteraria, La verità sul caso Harry Quibert non regge la suspense perché non funziona né la tecnica della sospensione, né quella di rimandare l'agnizione e nemmeno l'enterlacement.

Sulle solite casistiche del doppio e della follia, sorvoliamo. Quel che rimane da rimarcare è che l'autore cerca spesso di scrivere pagine che abbiano qualche accento lirico nel trattare l'amore e la disillusione, ma non ci riesce mai, semplicemente perché non sa scrivere.

Sconsigliato agli amanti della Letteratura, del Giallo e poco consigliato anche agli annoiati lettori in cerca di intrattenimento. Piacerà, probabilmente, a chi ha amato Uomini che odiano le donne, ma se quel romanzo arrivava comunque ad una sufficienza piena, questo è meno che mediocre.
Peccato, perché il trucchetto iniziale e il secondo capitolo potevano lasciar presagire qualcosa di più dignitoso.
Paratelevisivo, insomma, presuntuoso, incapace di declinare i topoi del genere, sembra l'apprendistato di uno scrivente che crede che allungando la minestra con dialoghi sconcertanti possa aumentare il fascino dell'opera.

Voto finale: 4,5

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