«VELEGGIARE VERSO L’ABISSO». LA MORTE NEL GATTOPARDO E NEL GIORNO DEL GIUDIZIO.

      La difficoltà più grande che io trovo in questo ritorno al passato è quella di mantenere le prospettive. E si capisce perché: ognuno di noi, anche se si limita a guardare in se stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dell’esistenza. La successione è una trasformazione continua, ed è impossibile cogliere e fermare gli attimi di questa trasformazione. Sotto questo profilo, si può dubitare del nostro stesso esistere, o la nostra realtà è solo nella morte. La storia è un museo delle cere[1].

Da questa sfiducia prettamente Novecentesca, dagli echi pirandelliani, muove la ricerca narrativa sattiana che, nel suo nostos sulla soglia della morte, consegna alla posterità il suo grande romanzo. In questa sede, ciò che ci proponiamo è di accostarlo, per analogie e differenze, ad un’altra opera postuma di pari spessore, figlia di un disincantato aristocratico siciliano e considerata la vera e propria pietra tombale del neorealismo.
Riesce molto difficile credere, leggendo Il giorno del giudizio, che Satta non abbia subito il fascino e l’influenza del Gattopardo, seppur non si abbiano informazioni che attestino la lettura, da parte del nuorese, dell’opera postuma di Tomasi.
Siamo di fronte a due romanzi postcoloniali[2], che prendono forma dopo una lunghissima gestazione e che si inseriscono nel filone della narrativa antistorica, insieme a De Roberto e Pirandello. Ad apparentarli è anche la narrazione dei fatti in un prolungato arco temporale, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, ed una patinatura da romanzo storico, in cui vengono ad innestarsi tematiche esistenziali.
Anche Satta racconta una storia ambientata dalla fine dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento: quella di una vecchia famiglia, non di aristocratici, ma di notai agiati, i Sanna Carboni, rappresentanti di un’autorità che appartiene, letteralmente, ad un altro mondo.
Il teatro in cui sembra svolgersi la vicenda della saga familiare dei Sanna Carboni è Nuoro, ma in realtà ci troviamo catapultati in un tempo senza tempo in cui le cose hanno stanchezza d’esistere e i morti si confondono con i vivi, forse perché la nascita e la morte sono gli unici due momenti in cui l’infinito diventa finito, mentre il finito, in fondo, non è altro che l’unico modo d’essere dell’infinito.
Anche Satta, come Tomasi, sembra infatti ossessionato dall’idea della morte[3] e, in fondo, la Nuoro spettrale del Giorno del giudizio appare come una non lontanissima parente della Donnafugata, strozzata dal sole, che nella notte del Plebiscito è travolta da un vento che rimesta i rifiuti e le immondizie.
Rintocca a morto la campana della chiesa di Donnafugata, s’insinua fra i pensosi labirinti di Fabrizio Salina, fra i suoi affanni. Quel suono funereo lo spinge a perdersi ancor più nei soliloqui con la grande eguagliatrice: la morte, qui, è intesa come futura liberazione dall’essere vivi.
Nell’opera dell’autore sardo, è tutta Nuoro ad essere avvolta in un continuo rintocco di morte e l’ombra del paesaggio, che s’intravede, sembra essere così lontana, ma allo stesso tempo così vicina, a quella del Gattopardo: «Si può dire che a Nuoro gli uomini, le donne e le bestie si trovano su questo incenerito suolo natio solamente perché, per puro caso, nel registro del Giorno del Giudizio dei lavori e dei giorni c’era un posto anche per loro»[4]. Si legga, ad esempio, il seguente passo del Giorno del giudizio:

Che profumi tra i canneti, nella macchia popolata di lepri e pernici, quando tornava il sole a resuscitare i ceppi morti e abbandonati dei bassi vigneti. Il guaio era che il paradiso in Baronia durava tre mesi: dopo, il sole diventava cattivo, si metteva a pentirsi della gioia che aveva portato tra gli uomini, impazziva anche lui. In una settimana portava il deserto. E quel che è peggio (poiché il caldo si può sopportare) uscivano da quelle gore alle quali tra ciuffi di oleandri si era ridotto il Cedrino eserciti di zanzare portatrici di morte. I contadini crollavano con la falce in pugno, le porte e le finestre si chiudevano come davanti ad un invasore, le donne ischeletrivano, i bambini dei poveri erravano per le strade, incartapecoriti e con le pance grosse di nove mesi. Sulla Baronia era scesa la maledizione (G 27).

Ritroviamo il sole portatore di morte, il paesaggio apocalittico, con in più la variante delle zanzare che scatenano la malaria sugli abitanti, che la pagina del Gattopardo conosce perfettamente: il passo appena riportato potrebbe essere scritto anche da Tomasi e ricordare, con le dovute distinzioni, le locations del viaggio di Don Fabrizio e della sua famiglia verso Donnafugata.

       Questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; […] sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; […] e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete[5].

Un paesaggio e un clima che non conoscono stagioni intermedie e fanno convivere inferno e paradiso, portando distruzione a tutti gli esseri viventi, nei quali sono completamente annullate le volontà, annientate le facoltà intellettive e ridotte ai minimi termini le energie vitali. La forza suggestiva di questa terra, che pare maledetta dagli Dei, è tutta nei contrasti violenti, nell’accumulo costante di aggettivi ed in una notevole forza espressiva. Su tutto, incontrastato, regna il senso di morte.
Anche Il giorno del giudizio è un romanzo della memoria ma non, come nel Gattopardo, del discorso elegiaco né della rievocazione storica, bensì della memoria come epicentro dal quale si irradiano esperienze e desideri che contribuiscono a formare la coscienza. Inoltre, Satta reinfonde al passato attualità (nell’opera di Tomasi è il presente che si fa passato) e si ricollega alla grande tradizione del romanzo ottocentesco in pagine, però, dal taglio inevitabilmente moderno, tipicamente novecentesco.
Satta, al contrario di Lampedusa, non nutre nessun rimpianto per il passato, né cede alla facile lusinga di una sua elegiaca esaltazione, per cui il suo romanzo risulta lontanissimo da qualsiasi libro di nostalgia e di vagheggiamento per uno stile e un modello di vita sconfitto dal cammino inarrestabile del tempo.
Il piccolo Gattopardo nuorese (il diminutivo non intende sminuire lo scrittore sardo, ma si riferisce alle analogie insite nell’opera che spingono ad intravedervi una sorta di miniatura della creazione lampedusiana) visto da una prospettiva borghese, si colloca in un tempo, a cavallo fra la vita e la morte, che s’inserisce, a pieno titolo, nel filone della letteratura esistenzialista. Si avvale di un fascino visionario di notevole fattura che rafforza pregevoli tratti di lirismo legato, solitamente, all’idea della donna e, più precisamente, della madre, per poi sfociare in un’amara riflessione sul ruolo di narratore, ‘ridicolo’ Dio, che riesuma cadaveri di personaggi che gridano, nella sua coscienza, il desiderio di essere rappresentati. Personaggi che, in fondo, raccontano il narratore stesso. Romanzo metafisico, probabilmente, ma non sbrigativamente etichettabile, sicuramente rispondente al gusto moderno, diremmo anzi post moderno, per la frammistione di generi e per l’inquieta e ossessiva ricerca di verità che il conseguente dubbio finisce col mettere in discussione.
Il primo capitolo è emblematico di tutto ciò e l’uso dell’imperfetto narrativo, il tempo della continuità, serve ad esaltare l’idea di un presente cristallizzato nella perenne immobilità, cui non giova neppure la consolazione di quelle liturgie, tanto care a Don Fabrizio, quali la cena con la famiglia religiosamente predisposta a tavola: Don Sebastiano attua la destrutturazione del modello gattopardesco, abolendo, per esempio, proprio la cena.
L’incipit del Giorno del giudizio merita di essere riportato e, ancora una volta, accostato, per similarità e divergenze, a quello del Gattopardo:

       Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all’ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l’unica viva nella grande casa, anche perché l’unica riscaldata da un vecchio caminetto.
Don Sebastiano era nobile, se è vero che Carlo Quinto aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi che avevano innestato gli olivastri sardi nelle loro campagne (la grande nobiltà con tanto di predicato era quasi tutta cagliaritana, ed era praticamente straniera all’isola): ma il doppio cognome era solo un’apparenza, altro non essendo il Carboni che il nome della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome della famiglia, un poco per l’usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popolazione (G 11).

Quel «come tutte le sere» ha il sapore di un rito vuoto che si ripete identico ed immutabile e che solo apparentemente sembra frenare il tempo, ma in realtà relega la vita dei personaggi in un limbo, nel quale passato, presente e futuro perdono le loro precise connotazioni e sfumano, condensandosi, nel momento della narrazione.
Anche la nobiltà di Don Sebastiano, al contrario del Principe di Salina, è solo una finzione; e il doppio cognome non prova nulla, poiché «ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi» (G 11). Diverse sono le funzioni svolte dal Principe e dal notaio nei due romanzi: il primo è protagonista, colonna portante, colui che filtra con la propria sensibilità gli avvenimenti che sfilano di fronte al suo sguardo disincantato, che produce le spinte propulsive e le allusioni implose nella narrazione; il secondo non parla quasi mai, simile ad una maschera che s’insinua fra le ombre che si intrecciano a Nuoro, una presenza-assenza costante che si risolve in opposizione a Donna Vincenza.
Maria Stella ritorna sovente nei pensieri di Don Fabrizio ed è accompagnata da toni affettuosi, malinconici, ma che nulla hanno a che fare con l’amore; ed il legame che li unisce sembra essere proprio una muta solitudine che si va a rafforzare nel tempo. E’ Don Fabrizio l’uomo forte che, nelle sue collere, nasconde le insicurezze che lo travagliano, mentre la Principessa vive in disparte, quasi fuori campo, le sue crisi di nervi, i suoi bicchieri di valeriana, la sua debolezza. Donna Vincenza e Don Sebastiano estremizzano la condizione della precedente coppia di coniugi: è come se fossero due fantasmi senza rendersi conto di esserlo. Sono ormai due entità troppo diverse, due monadi che, nel procedere della narrazione, non si parlano, non si riconoscono, non si vedono più. Siamo all’isolamento che solo il cimitero, nonostante la moltitudine di tombe, può concedere.
Don Sebastiano, inoltre, rappresenta anche la concretizzazione, nel diritto e nella sua attività di notaio, dell’esistenza dei suoi compaesani. Rappresenta la giustizia, ovvero ciò che è giuridicamente corretto, la meccanicizzazione del giudizio che ha la sua ragion d’essere nella sua applicazione, anche se può apparire crudele agli uomini, che giudicano con i sentimenti. Don Sebastiano, in fondo, non è la figura centrale del romanzo sattiano perché la narrazione è interessata a raccontare la Nuoro che ruota intorno alla famiglia Sanna Carboni. Il vero protagonista del Giorno del giudizio è il narratore stesso, col suo profondo sgomento da sradicato, con la sua dolorosa necessità di raccontare. E’ come se un vecchio riprendesse in mano un’antica foto ingiallita che ritrae, da lontano, la Nuoro di tanti anni prima. In quella foto, appena visibili ad occhio nudo, sono immortalati, letteralmente, i personaggi che popolavano il palcoscenico di allora: sono, ormai, tutti morti, ma quell’istantanea li congela in un attimo che sembra perpetuarsi. Sono morti, ma non sanno di esserlo e, anche se qualcuno di loro se ne fosse reso conto, non sarebbe cambiato nulla.
Ecco, dunque, che il vecchio narratore vuole rivederli per l’ultima volta, vuole riconoscerne i lineamenti e ricordarne la vita (se mai sono vissuti) e la sua penna è come una lente di ingrandimento che scivola sui personaggi dilatandone le immagini. Ed è nell’avvicinarsi e nell’allontanarsi della lente sul soggetto che si ha l’impressione che questo si muova e che sia, per l’ultima volta, vivo. Così sfilano, proprio come nelle processioni di dantesca memoria, Don Sebastiano e Donna Vincenza (nell’abisso da cui segue gli avvenimenti), Boelle Zicheri e Pietro Catte, Fileddu e Gonaria, Maestro Mossa e Maestro Manca, Don Ricciotti e tutti gli altri frequentatori (e non) del caffè Tettamanzi. Maestro Manca è cristallizzato nel momento in cui si tocca preoccupato la vena della tempia che gli sembra ingrossarsi ogni giorno di più ed ha paura di morire per lo scoppio di essa. Ma il narratore conosce la sua storia, lo rivede ancora suonare e cantare le canzoni che compone, bere troppi bicchieri; sa che è morto, non a causa di quella vena tanto temuta, ma per aver battuto il capo, dopo esser banalmente scivolato in una bettola di S. Pietro, mentre tendeva la mano tremante verso il bicchiere nel quale soleva confondere la sua sensibilità, che è anche coscienza del vivere e del morire. Il vizio del bere diviene, quindi, il prezzo da pagare per tale eccesso di consapevolezza, ch’egli cercava di esorcizzare in quei canti vicino al fuoco, nell’ora di lezione, di fronte ai suoi alunni:

Gli si strinsero intorno e ne uscì una chitarra. […] Ne veniva fuori un suono malinconico che ammansiva persino quelli dell’ultimo banco, poi la voce del maestro intonò un canto in esaltazione del vino da lui composto nella notte, una parodia delle laudi di Gesù, che sarebbe stata blasfema, se non fosse stato un pianto su se stesso, sulla miseria nella quale si sentiva precipitare (G 113).

Maestro Manca è fra le figure maggiormente suggestive ed emblematiche dell’intero romanzo, tratteggiato quasi con stilemi epici, di un’epica però stravolta e ridisegnata al contrario, impregnata di una sublime ironia tragica data, appunto, dal reinfondere vita a ciò che è passato. Nel racconto dell’immobile affannarsi dei dannati sattiani nel limbo nuorese, aleggia, infatti, la dolente consapevolezza di chi sa già come andrà a finire e non può salvare nessuno dalla funebre irriducibilità del destino. In Satta la morte perde quei caratteri sensualistici (la voluttuosa immobilità agognata da Don Fabrizio) e antropomorfici tanto cari a Tomasi, per acquistare quella forza visionaria presente soltanto sporadicamente nel Gattopardo. Insomma, il rigor mortis che caratterizza l’ultimo capitolo del romanzo di Tomasi è, invece, una costante dell’intero Giorno del giudizio. L’estremo volo, dalla finestra ai rifiuti, dell’imbalsamato Bendicò, per un attimo, prima che trovi definitivamente pace in un mucchietto di polvere livida, sembra riconsegnarlo alla vita. Satta dilata quell’attimo fino al parossismo, nell’illusione di riconsegnare alla vita i cadaveri della sua Nuoro, resuscitandoli e raccontandoli come in un giudizio finale, in un tempo cristallizzato nel nulla.
Epica rovesciata, dunque, sia nel Giorno del giudizio sia nel Gattopardo: epopea capovolta di due isole che si trovano a disagio nel cambiamento dei tempi, che faticano ad entrare nella modernità; periferie che perdono i loro specifici connotati spazio–temporali e si tramutano in terre mitiche, aventi una loro cifra di riconoscimento che supera le frontiere regionali e nazionali per manifestarsi in una koinè poetica idonea a legittimare le traduzioni avute in numerosissime lingue.
Epica rovesciata di due uomini che, in limine mortis, danno alla luce il loro romanzo dopo una lunghissima gestazione, per chiudere il conto con la vita, per ritornare dal punto da cui sono partiti al fine di conoscerlo davvero per la prima volta; epica rovesciata di due uomini che non credono nelle magnifiche sorti e progressive e riversano il pessimismo, ciascuno nella propria opera, rievocando i momenti di transizione nel passato che non hanno apportato miglioramenti, in modo da servirsene quale specchio del disincanto nei confronti delle speranze di cambiamento che il presente offre loro: Tomasi la ricostruzione, Satta il sessantotto; epica rovesciata della Sicilia, antico regno delle divinità, terra di uomini che vorrebbero essere Dei come Don Fabrizio, ma che invece sono destinati allo scacco; e quella della Sardegna, meglio ancora di Nuoro, nella discesa agli inferi che relega tutto in un microcosmo atemporale, cosicché ogni giorno è uguale a quello successivo. Due opere importanti, rivelatrici di quei conflitti che si agitano nel Sud del mondo e che spesso sono alla base di una grande letteratura, secondo la celebre affermazione di Dominique Fernandez; due romanzi della nevrosi collettiva[6] che si tentano di esorcizzare attraverso la funzione catartica della scrittura e la costruzione delle proprie soluzioni mitiche.


[1]  S. Satta, Il giorno del giudizio, Milano, Adelphi, 1990 (=G), 167-68.
[2]  E’ la provocatoria definizione data da Alessandro Carrera nel suo Il Principe e il Giurista, Roma, Pieraldo, 2001, al Gattopardo e al Giorno del giudizio in quanto la Sicilia e la Sardegna, violentate dalla Storia, sarebbero state colonie dell’Italia. Si tratta, dunque, di due isole che hanno attraversato (o che forse attraversano ancora) la fase postcoloniale, con forti ripercussioni nella letteratura prodotta.
[3]  Si tratta del nucleo centrale della poetica di Satta come, molto opportunamente, sottolinea Vanna Gazzola Stacchini nella recente biografia (interessante anche per il continuo riferimento all’uomo e al giurista ed alle sue posizioni) Come un giudizio - Vita di salvatore Satta, Roma, Donzelli, 2002.
[4]  G. Steiner, Prefazione a S. Satta, Il giorno del giudizio, Nuoro, Ilisso, 1999, 10.
[5]  G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1969, 234.
[6]  Si veda ancora Carrera, Il Principe…, 17-32.


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