"Il mondo creato" di Franco Ferrucci: da riscoprire

Straniamento come diottria privilegiata attraverso la quale osservare la realtà e la natura dell'uomo. Innumerevoli gli antecedenti, indubbiamente, da Rabelais a Swift, da Pulci ad Ariosto, ma non sono in molti a poter vantare una tale ottica privilegiata quale quella di Dio, protagonista, nonché io narrante, di uno dei romanzi più originali e struggenti (e poco ricordati) degli ultimi quarant'anni: Il mondo creato, di Franco Ferrucci, anno domini 1986. Capolavoro profetico, quello dello scrittore toscano, innervato del medesimo pessimismo storico dello sciasciano Il cavaliere e la morte, dato alle stampe nel 1989.
La conformistica nostalgia degli anni Ottanta non ha finora portato a una rilettura costante e, si passi il termine, necessaria alla divulgazione di quelle esperienze letteraria atte a divenire filtro pronto a sondare l'indecifrabile e il caos dell'ultimo decennio; forse proprio perché non particolarmente attrattiva per il mercato, quel mercato che nel Mondo Creato è messo implicitamente sotto accusa, reo di produrre un immaginario che si salda con l'insopprimibile pulsione di morte dell'uomo.
Sarebbero non poche le opere da accostare a quelle di Ferrucci del medesimo decennio. Un'analisi del rimosso che riaffiorare con maggior prepotenza oggi e che freudianamente si riafferma: rileggiamo, allora, l'India metafisica di Tabucchi come una latenza di ieri e regola dell'oggi (il riferimento è a Notturno indiano); oppure accostiamoci alla fantascienza  esistenzialista di Cima delle nobildonne di D'Arrigo o ai barocchismi di Bufalino - per tacere di Pontiggia o Parise o ancora di Sciascia - per indagare dinamiche, inquietudini, nevrastenie del nuovo millennio.

Il mondo creato, dunque. Il protagonista, dicevamo, è Dio che, attraverso la memoria, ripercorre la storia della vita, dalla genesi fino al rantolo del Novecento. L'opera si inserisce nella lunga tradizione letteraria che va dai racconti popolari presenti nel Novellino, al poco conosciuto poema di Torquato Tasso Le sette giornate del mondo creato (opera dalla quale deriva il titolo del romanzo), scritto fra il 1592 e il 1594, dal Paradiso perduto di Milton e così via.
Il Dio descritto da Ferrucci è tutt'altro che infallibile e perfetto, non appare certo come quello raccontato dalla Bibbia; al contrario è incapace di riparare alle sue creazioni maldestre, inabile ad intervenire nelle vicende dell’uomo, ininfluente nel cammino della Storia e persino impossibilitato, nonostante gli sforzi, a far comprendere agli esseri umani i suoi desideri. La stravagante (e poetica) figura divina elaborata dall’autore risulta essere molto vicina al demiurgo della tradizione gnostica che crea il mondo assecondando un destino superiore il cui disegno complessivo non gli è chiaro. Non è certo malvagio ed anzi, con le sue esplosioni di gioia che si verificano nei momenti della creazione inconsapevole, con le sue repentine malinconie, con l’ossessivo e tragicomico tentativo di entrare in contatto con le sue creature, si pone come il perfetto prototipo dell’artista, un po’ folle e geniale, ma incoerente ed incostante.
Da tali premesse, non appare strano che l’uomo venga creato quasi inconsapevolmente: il suo prodromo è una scimmia particolarmente intelligente e malinconica che Dio chiamerà, in seguito, Zita. Da Mosè a Gesù (nei confronti del quale non abbiamo un chiaro riconoscimento da parte del padre), fino alla fine del ventesimo secolo tutti concorrono a falsare l’immagine di Dio, in una commistione incessante di menzogna e verità. Il ritratto che Ferrucci propone di Dio è quantomeno eccentrico: un solitario e creativo, angustiato da continue crisi malinconiche, capace di perdersi alla ricerca dell’ignoto nelle siderali immensità dell’universo, innamorato delle sue creazioni, sensibile al fascino delle donne con le quali non disdegna intrattenersi in numerosi rapporti sessuali, spesso mescolato con tutti gli esseri viventi, attraversatore di tutte le epoche, tanto trasformista da calarsi nei panni di uomini comuni, a volte miserabili, inesausto ricercatore dei molti grandi nomi della Storia: da i già citati Mosè e Gesù, ad Eraclito, Agostino, Dante, fino ad arrivare a Freud, Einstein e Mussolini. 
Il lirismo di Ferrucci non è mai compiaciuto, ma si fa poesia della disillusione, forma che diviene sostanza, in una tensione immaginifica che ha nello strazio desiderante i suoi risultati migliori.
Il racconto di momenti tragici, surreali, erotici, umoristi e comici è sempre condotto con levità; la conclusione rinviene la violenza connaturata alla natura delle cose e dell'uomo stesso. Il mondo creato si chiude, simbolicamente, con la trasformazione di Dio in una lucertola torturata ‘innocentemente’ da un gruppetto di bambini.
Più attuale che mai, il libro di Ferrucci andrebbe letto alla luce della cultura dell'orrore e della morte che tanto affanna le prime pagine dei giornali, ammorba la televisione, devasta i social network: ad essa contrappone una condanna senza appello, in nome di un umanesimo problematico, certo, ma che è nutrimento di un immaginario che nell'insopprimibile anelito al bello e all'armonia ha ancora i suoi pilastri fondativi.


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