Quel mio vecchio vizio (2017)


Mi piacciono le rotaie, portano lontano. Oppure preannunciano un arrivo.
Mi piace guardarle quando non c'è il treno, magari seduto sui talloni, ad altezza di bambino.
E mi piacciono proprio quando non conoscono curve, ma dritte, di quelle che si perdono all'orizzonte, come nei film western. E mi affascina l'immagine di un ragazzo con il mantello, capelli neri e lunghi, magari con una chitarra a tracolla, che vi cammini lentamente e venga verso di me senza vedermi. Ha forse pantaloni di pelle e credo che voglia continuare a camminare a lungo, senza fermarsi alla stazione che proprio ora raggiunge.
E non sa che nascosti intorno ci sono tre che lo aspettano. Non hanno buone intenzioni ed io non posso nè voglio avvertirlo. E l'immagine diventa improvvisamente necessità di raccontarla, esautora qualsiasi anestetico, qualunque sostanza vagamente stordente.
Uno dei tre è appoggiato al muro, occhi chiusi, barba lunga, cicatrice a forma di mezzaluna, qualcosa che evoca rimpianto. Ha un cappello, la pelle del viso bruciata dal sole, in ossequio allo stereotipo.
Un altro è seduto su una roccia, nascosto da un arbusto. Ha occhi azzurri, anzi turchesi, bellissimi e cattivi. Mastica qualcosa. Tabacco? Non pensa a nulla, si annoia e carica la sua sospensione temporale di un umore marcescente, ben più cupo dell'ira.
Il terzo è dentro la stazione, sdraiato su una panchina. Dorme? Non vedo il volto, ha un cappello calato sugli occhi. Respira pesantemente. So che si alzerà al momento giusto e sarà ciò che deve essere. Una maschera, anche lui, nulla di più.
Io sento che non posso solo guardare, ma devo farlo, per ora.
Non avviserò il ragazzo, quel che conta ora sono quelle rotaie che sanno di lontano, pronte ad evocare il perduto, decise nell'esigere da me attenzione.
C'è ancora quella vecchia storia da raccontare...

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