La stranezza di Roberto Andò: la forza vitale della creatività vince la morte.

Segnalo una buona occasione per ritornare al cinema e per vedere un film italiano.

La stranezza di Roberto Andò è ciò che, a mio avviso, dovrebbe essere la settima arte: la compenetrazione tra alto e popolare, sintesi tra le ambizioni dell'autore e la necessità di intrattenere senza mai banalizzare. Chi scrive, infatti, ritiene che l'arte può avere ancora un potere rivoluzionario solo se interviene sull'immaginario collettivo e se diventa, quindi, fruibile per il più alto numero possibile di persone. Non invento certo nulla di nuovo, anzi, semmai appaio retrò perché tali considerazioni si portano necessariamente dietro la rivalutazione di critici e mediatori culturali (esautorati dal cretinismo dei social network e dalla dirompenza di un certo qualunquismo) ai quali assegno ancora, donchisciottescamente, il ruolo di fondamentali educatori alla bellezza e al sogno. 

Bando alle lungaggini: il film  racconta  dell'ossessione di Pirandello (Servillo, sobrio, alieno da qualsiasi vezzo da gigione e, per questo, assai credibile) per i Sei personaggi in cerca d'autore (è lo stesso drammaturgo in una lettera del 23 luglio del 1917 al figlio Stefano a definirla ossessione) e di come la frequentazione con due bislacchi becchini teatranti, gli ottimi Ficarra e Picone, in grado di restituire un ventaglio ampio di umori e sensazioni, sia stata fondamentale nella sostanziazione del suo capolavoro.


Toni Servillo tra Ficarra e Picone


Roberto Andò non è nuovo a esplorazioni letterarie e lo dimostrano sia il suo Il Manoscritto del principe, pellicola del 2000 che racconta Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sia le sue 'frequentazioni' sciasciane; nella Stranezza mostra di conoscere Pirandello, di avere garbo, eleganza e intelligenza; non cade, poi, nel facile tranello di utilizzare la figura del maestro siciliano per ridicolizzare la passione teatrale dei due becchini. Anzi, l'immersione nella vitalità popolare incuriosisce e diverte il drammaturgo ed è vista con simpatia dal regista stesso: è facile, poi, metterla in relazione con il perbenismo borghese, rappresentato dal pubblico che si indigna per la 'vergogna' dei Sei personaggi.


La Vita protagonista sul palco


Non voglio, tuttavia, scrivere una recensione critica del film, ma solo promuovere la forza evocativa che questo mi ha trasmesso (di recensioni, fortunatamente, la pellicola ne ha avute tante, spesso lusinghiere, e non ha bisogno della mia): la passione per il teatro (per traslato, il cinema, la letteratura) vince la morte. Solo con la creatività, mi sia perdonata la retorica facile, possiamo dare senso all'esistenza.

Il nostos di Pirandello in Sicilia, quello che apre la storia, è caratterizzato, infatti, da toni mortuari. La morte della sua bambinaia, infatti, innesca nello scrittore ulteriori inquietudini, ne accresce le sofferenze. La perdita, dunque, come motore dell'azione. Perdita dell'infanzia? Dell'autenticità? Di una certa Sicilia? Come superare tutto ciò? Danzando con i propri fantasmi, rielaborandoli con la passione per il teatro, per la scrittura, per la vita. Questo mi porto dietro, dopo essere uscito dal cinema. Sono stato fortunato, allora, perché ho trovato una trasfigurazione artistica consentanea alla mia dimensione esistenziale. E mi sento ancora più fortunato per aver goduto della visione della pellicola in sala, così da poter apprezzare profondità di campo, gusto della fotografia novecentesco, cotè scenografico a me caro. Un'immersione nella mia infanzia, insomma. Non lo è, per me, la Sicilia? Il traghetto che si stacca durante la notte da Cagliari... lo sbarco a Palermo o a Trapani... papà giovane e sano che canta, guida, scherza... mamma bellissima... io e mia sorella bambini... lo sai cu si marita? la fijja d'u purcaru... nomi e suoni che sanno d'antico: Santa Ninfa, Montevago, Salaparuta, Santa Margherita, Poggioreale... e le case del paese vecchio, assassinato dal terremoto, che sembrano giganti addormentati in un teatro vuoto, le sterpi e i rovi a opprimere quei ruderi... e c'è un mistero più grande di me bambino che si schiude e che si nasconde. Forse sono partenze, forse il ritratto in bianco e nero del nonno con i baffi che portava il mio nome, quel nonno sperto che non ho mai conosciuto e chissà che mi avrebbe raccontato. Forse nonna che canta Ciuri ciuri all'uncinetto, io nella soffitta della casa grande, io alla ricerca fra le ombre di un passato che per me diventa fantasia.... e allora sogno deità favoleggianti e Circe e il viaggio di Ulisse e quel qualcosa che non dico. E i miei zii, i miei cugini, gli amici e i parenti di Poggioreale. Le vie senza pericoli, i cannoli, I magnifici sette in televisione, le partite a carte, mercante in fiera. E il bambino che era in me, quello che inventava storie e giochi, pronto allo sberleffo e ai sogni, ferito dalla paura della morte. Il bambino che era in me e che è ancora qui con me. 

Ecco che significa tornare al cinema: viaggiare nel tempo, rivedere luoghi e persone, fantasticare, sentire le emozioni degli altri insieme a te.

In una parola: vivere.

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