C'era una volta la Rivoluzione: incipit.



1958


C’era un luogo, tanti anni fa, in cui nessuno cercava di arrivare.
Una costa che specchiava nel mare celeste i cespugli e i rovi, le
rocche e le colline, prima che sapesse di essere smeralda, di avere
segreti e bauli di sogni da regalare, di attirare principi che la potessero
risvegliare.
È una sposa pazza che davanti all’altare giura vendetta al marito
per un tradimento solo sognato.
O forse solo un quadro: vallate frastornate dal canto delle cicale,
precipitate in mille estati senza nubi, in quelle soglie che non portano
alla Storia, ma solo a casette disperse nel giallo di stoppie
riarse. E se ti avvicini, se rubi la cornice, se incrini il vetro che
vuole salvare quell’immagine ecco precipitare l’ordine, risucchiato
in mille rivoli che non raccontano nulla, né insegnano.
Neppure spiegano, sanno solo evocare, convulsi, gli occhi di un
bambino di sei anni, seduto all’ombra dell’albero di fronte alla
sua casa. Si chiama Nicola, è scalzo, i pantaloni gli arrivano alle
ginocchia, la camicia chiara e bucherellata racconta di corse a perdifiato
fra i cespugli e i sentieri che vanno verso il mare. È come
se fosse lì da sempre, in compagnia di Trieste, il suo cane, in attesa
dell’eternità, ignaro delle scelte, del futuro, di cosa significhi essere
arrivato fin laggiù. Forse sogna di volare, nelle sere d’estate,
oppure fantastica chissà quali avventure del padre carabiniere
mentre combatte e sconfigge i cattivi.
Il brivido dell’estate percorre la valle. È più di un accenno di
vento. È la terra che freme infiammata, forse invaghita d’oblio.
Nicola si alza e si appoggia al tronco dell’albero. Suo padre lo
saluta e lentamente si allontana, si allontana sempre di più, dall’altra
parte del mare, a passo sostenuto, mentre sua madre, sull’uscio,
asciuga le mani sul grembiule. E aspetta.
Trieste, riverso su un lato, sbadiglia.
Nicola segue con lo sguardo la sagoma del padre farsi amica
dell’orizzonte per poi perdersi dove l’occhio non sa arrivare.
Niente. Non sarebbe dovuto succedere niente, come ogni volta,
com’è giusto che sia.
Ma il vetro è scheggiato, la cornice dov’è? Il bambino si muove
qua e là, senza ragione, e un oscuro sentire gli avvelena l’umore.
Ecco, gli occhi di un bambino di sei anni che non puoi spiegare
e che non sanno insegnare, proprio laggiù, dove tutto sembra
avere inizio per essere per sempre dimenticato.


Settembre 2006

Un bicchiere di cristallo su un tavolino, l’acqua fino al suo orlo
comincia a traboccare per l’intensità della pioggia. Al suo fianco
il gemello patisce una sorte affine, più in là una bottiglia di champagne
aperta raccoglie i sussulti del ghiaccio che si scioglie, nel
secchiello in cui è stata abbandonata: sembra una nave che, finita
in una secca, attenda rinforzi, tentata dall’idea di rovesciarsi su
se stessa. Intorno due sedie bianche, su un prato ben curato. Di
fronte, una villetta.
Il riverbero dei lampi illumina il corpo senza vita di Paola Moreno,
venticinque anni, sull’erba. I tacchi a spillo, un cinturino in
una caviglia, un abito nero con uno spacco che parte dalla vita, le
spalle scoperte, un anello al pollice, braccialetti colorati ai polsi.
I bagliori rischiarano il suo volto: i capelli, cupi detriti di un fiume
straripato, rovesciati sul verde, gli occhi trincerati nell’ultimo
sonno, la bocca socchiusa, macchiata d’amore perduto.
Un tuono fa tremare la porta a vetri dell’entrata in una scossa
che pare alludere ad un segreto che solo i luoghi di mare sanno e
vorrebbero dimenticare.
Al collo della ragazza è stretto, come un laccio, un foulard
bianco.
Un ultimo, indimenticabile addio.

Commenti

Post popolari in questo blog

Per una lettura gotica dei "Promessi sposi"

Ariosto: Alcina, l'illusione e il reale da drogare

Il gattopardo: la trama e la metafora decadente dell'esistenza.