L'idea, la nostalgia, il Mito, l'arte.

Non mi dite che C'era una volta in Amerira e C'era una volta il west non siano decadenti. Come forse lo sono tutti i film dell'immenso Maestro Sergio Leone. Non riesco mai a scrivere veramente di lui, perchè so che sarebbe come scoprire troppo di me.
Eppure nei miei romanzetti è sempre presente il riferimento, l'omaggio, la citazione viscerale non solo al suo cinema, ma alla sua visione del mondo.
E qui arriviamo al punto focale di quello che a quest'ora vorrei comunicare a qualche smagato viandante della rete: l'idea. Spesso, molto spesso, qualcuno mi dice, sai mi è venuta questa idea, la vorrei sviluppare in un romanzo.
Sorrido, tra me. L'idea. Quanto poco conta l'idea nella composizione di un romanzo!
Non è il cosa si dice, ma il come. Non è il concetto che conta, ma quanto lo scrittore senta, da starci male anche, da morirci dal ridere, non l'idea, ma il progetto. Da quanto le immagini si impadroniscono delle sue giornate.
Ripeto, l'idea, anche se geniale, non è nulla, al massimo conta il cinque per cento nel risultato finale. Il resto è struttura, tecnica, talento, conoscenza delle tecniche narrative, consapevolezza intertestuale che vivifica e innerva il racconto; il resto è tutto.
Un'idea geniale nelle mani di chiunque è zero.
Una banalissima storia d'amore nella penna di un buon artigiano o di un maestro è rispettivamente tanto e tutto.
E ritorniamo a Sergio Leone. Al primo posto lo spettacolo, poi centinaia di letture secondarie, stratificazione che solo i geni assoluti riescono a concepire.
Tante letture, certo, polisemia, ambivalenza et similia.
Ma stasera, complice il vento freddo che pare irridere l'estate e la luna; una sensazione di sbandamento innescato dalla dolorosa  e dolcissima consapevolezza della vanità del tutto; alcune immagini riviste di C'era una volta in America in televisione (la morte di Dominik, a rallentatore, con l'immortale colonna sonora di Morricone) mi va di andare a pescare un nodo cruciale. L'infanzia. La vedo neli occhi di mia figlia, che riflettono i miei, malinconici e cresciuti. E ripenso ad Ariosto quando racconta di Astolfo sulla luna. E rivedo Silvia baciare Aminta nei versi del Tasso. E sento ancora l'armonica di Bennato e la voce di una ragazza che canta e la promessa di un piacere che non si sarebbe mai potuto volgere in dolore. Tutto sbagliato, Filippo, come sempre. anche se lo sai, anche se sei, ormai senza nemmeno più volerlo, controcorrente.

Per Leone la fine dell'adolescenza non è la fine dell'adolescenza: è la morte.

Per me, nel mio immaginario (quindi nella tensione artistica, si badi bene, non tanto nel reale) è lo stesso.

Commenti

  1. No no no, non ci sono regole. Sarebbe troppo facile, qualcuno deterrebbe la verità. E non credo neanche nello sbilanciarsi tra le componenti dicotomiche dell'apparire o dell'essere, la sintassi e la semantica. Van Cleef diceva che imparare a sparare è come fermarsi in una strada trafficata, puoi decidere se farlo bene o non farlo per niente, se ti fermi al centro sei perduto. Pure i personaggi di Leone non scendevano a compromessi, spesso erano irrimediabilmente soli. Non sono mai stato d'accordo, ma lo stridere di queste realtà con la mia mi permetteva di viaggiare all'interno di quegli spazi che nel mondo che abitiamo scompaiono appena si attraversa la nostra pelle.
    Io se posso scelgo di piegarmi un po', di spezzarmi un po', ma tutto sommato di godermi quel forte vento che fa cadere le foglie.

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