Otto Rank e il doppio: Plauto, Shelley, Stevenson a confronto
Otto Rank sul tema del doppio (o Doppelgänger) ha scritto un saggio fondamentale del 1914.
Questi analizza il motivo del doppio come un'entità che ha subito una profonda evoluzione storica e psicologica, partendo dalla sua origine. Nelle prime fasi mitologiche e culturali, il doppio è spesso visto come un'entità protettiva, una sorta di angelo custode o l'anima che continua a vivere dopo la morte. Rank rintraccia questa concezione arcaica in figure come il sosia o il riflesso, in cui la perdita del proprio doppio (ad esempio, l'ombra o il riflesso in uno specchio) era temuta perché significava la perdita dell'anima e l'anticipazione della morte. Il doppio, in questa fase, è il primo nemico dell'Io che, nonostante l'intento protettivo, segnala la finitezza.
Con il passare del tempo e l'emergere di una maggiore consapevolezza dell'Io individuale, la figura del doppio subisce una trasformazione patologica nel Romanticismo e nella letteratura successiva. Rank osserva come il doppio diventi da simbolo di immortalità il presagio spaventoso della morte. Non più un protettore, il Doppelgänger si manifesta come l'incarnazione degli impulsi e dei difetti repressi dell'individuo: il lato oscuro, la coscienza personificata, il rimprovero morale, o l'immagine di una possibile vita non vissuta. Il ritorno del doppio, in questo contesto, è strettamente legato al narcisismo e alla sua patologia. Il soggetto, non volendo accettare i propri impulsi negativi, li proietta all'esterno in questa figura spettrale che lo perseguita. Questa proiezione narcisistica si sviluppa spesso in congiunzione con una forte auto-critica e un senso di colpa, e si manifesta tipicamente in momenti di crisi esistenziale, in particolare in relazione all'amore e alla sessualità (come il triangolo amoroso in cui il doppio si interpone tra il protagonista e l'oggetto d'amore) e alla paura della follia e della castrazione.
In definitiva, per Rank, il doppio è un meccanismo psicologico che nasce dal tentativo di negare la caducità dell'Io e la sua ineluttabile mortalità. Quando l'uomo moderno perde la fede nelle primitive assicurazioni di immortalità, il doppio riemerge, ma in forma rovesciata, come una minaccia incombente che incarna la negazione della vita stessa e l'incapacità dell'Io di integrare i propri lati oscuri, trasformandosi da promessa di vita eterna in un costante e angoscioso promemoria della morte.
L'analisi del tema del doppio nella commedia plautina Amphitruo rivela una funzione che, pur essendo intrinsecamente legata alla dinamica della farsa comica e dell'agnizione, assume risonanze profonde sull'idea di identità e sull'autorità divina, anticipando a suo modo riflessioni che la letteratura avrebbe ripreso millenni dopo. In questo contesto, il doppio non è l'alter ego psicologico o l'ombra morale temuta, ma una sostituzione fisica e mitologica perfetta, operata dagli dèi a fini ingannevoli.
La commedia si regge sulla duplicazione di due coppie: Giove che assume le sembianze di Anfitrione, il generale tebano assente, e Mercurio che imita perfettamente il servo di questi, Sosia. La funzione primaria del doppio è indubbiamente strutturale e comica: esso genera la confusione essenziale per il genere, una vertigine costante per i personaggi umani che non sanno distinguere l'originale dalla copia. L'effetto è massimizzato dall'ironia drammatica, poiché lo spettatore è fin dall'inizio consapevole della vera identità dei sosia divini. Il doppio è qui lo strumento che permette a Plauto di esasperare la beffa, moltiplicando gli equivoci domestici e l'umiliazione degli umani.
A un livello più profondo, però, il doppio ha la funzione di mettere in crisi l'esistenza stessa, trasformando la commedia in un'indagine sull'identità. Il momento culminante è l'incontro tra il vero Sosia e il divino Mercurio che ne ha assunto le fattezze: il servo, picchiato e negato nella sua stessa persona, è costretto a interrogarsi sul rapporto tra memoria, testimonianza e sé. Chi sono io se un altro ha fatto ciò che ricordo di aver fatto e ne ha la prova fisica? Il doppio distrugge la certezza dell'Io, ponendo l'identità non come un dato intrinseco, ma come qualcosa di fallibile e negabile, dipendente dal riconoscimento altrui.
Infine, il doppio assolve una funzione di critica e demitizzazione nei confronti del pantheon olimpico. Giove e Mercurio non agiscono in base a un disegno cosmico elevato, ma per soddisfare una libidine meschina. L'onnipotenza del dio è ridotta a un mero espediente per l'adulterio, esponendo l'immoralità e l'arbitrio delle figure divine attraverso il filtro basso e farsesco del doppio. L'inganno è necessario affinché Alcmena, la moglie casta e ignara, generi Ercole, il semidio che bilancia il registro tragico con l'esito salvifico.
Frankenstein (M. Shelley, 1818)
In Frankenstein, il tema del doppio è espresso non tanto attraverso la clonazione fisica, quanto nel rapporto di creazione e rispecchiamento tra il dottor Victor Frankenstein e la sua Creatura.
La Creatura è il doppio di Victor nel senso che incarna e materializza le conseguenze della sua superbia scientifica e della sua negligenza morale. La mostruosità della Creatura è la manifestazione fisica e terrificante della mostruosità interiore di Victor, del suo egoismo e del suo rifiuto delle responsabilità. Victor crea la vita, ma nel momento in cui ne è spaventato, la ripudia, proiettando ogni colpa e orrore sulla sua creazione. La Creatura, infatti, è inizialmente buona, ma il rifiuto del suo "padre" e della società la costringe a incarnare il ruolo di demone, diventando di fatto il doppio distruttivo che riflette il fallimento etico del suo creatore.
La relazione tra i due si configura come una caccia ossessiva in cui inseguitore e inseguito si scambiano continuamente di ruolo. Questa dinamica simboleggia la lotta dell'Io con il suo lato rimosso: Victor non può distruggere la Creatura senza distruggere la prova del suo stesso fallimento e la proiezione della sua stessa ambizione sfrenata. Il doppio qui ha la funzione di interrogare i limiti della scienza e l'etica della creazione.
Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde (R. L. Stevenson, 1886)
Il romanzo di Stevenson, invece, mette in scena il doppio come scissione della personalità, diventando il modello archetipico della lotta interiore tra il bene e il male.
Il dottor Henry Jekyll non proietta il suo lato oscuro, ma cerca attivamente di separarlo con un esperimento chimico, dando vita a Edward Hyde. Il primo desidera liberarsi delle pulsioni immorali e antisociali ("l'elemento malvagio del mio Io, reso indipendente dal bene"), per poterle esprimere liberamente senza compromettere la sua rispettabilità sociale. La funzione tragica del doppio, in questo caso, è mostrare come il male, una volta isolato e liberato, sia più forte e più vitale del bene che cerca di contenerlo. Hyde è puro impulso, forza bruta, piacere senza freno; è l'incarnazione del male radicale che Rank definirebbe il "lato rimosso" che ritorna in forma minacciosa. Man mano che Jekyll usa la pozione, Hyde prende il sopravvento, riducendo la statura fisica e morale del Dottore e minacciando la sua stessa esistenza.
Oltre all'analisi psicologica, il doppio Jekyll/Hyde funziona come critica alla moralità vittoriana, che imponeva un'esteriorità di perbenismo e repressione, costringendo il "lato selvaggio" dell'uomo a manifestarsi in forme distorte e violente. Il doppio è il veleno sociale che corrompe la facciata della rispettabilità borghese.
Entrambi i doppi, pur con modalità diverse (creazione vs. scissione), hanno la funzione di esternalizzare la crisi dell'Io moderno, proiettando all'esterno le forze distruttive che l'individuo non riesce a riconoscere e a integrare, portando alla rovina e alla morte sia l'originale che la sua copia.

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