Il velo sul roseto
-
Cerchi un letto e un piatto di minestra?
Io
dissi di sì e questi, con un sorriso appena camuffato, mi invitò a seguirlo in
chiesa.
Era un prete di nemmeno trent’anni. La voce, i lineamenti e l’andatura tendevano
ad un garbato sfinimento. M’accorsi in fretta, e con un certo stupore, quale
carisma avesse e con che decisione si rivolgesse ai suoi parrocchiani, persino
la voce femminea s'irrobustiva di colpo, si alterava in un soffio in grado
di evocare qualcosa di indefinibile e poco rassicurante.
E dunque, non appena arrivato in quel luogo sconosciuto, conobbi
in men che non si dica parecchi abitanti della cittadina, ma mi rimase impresso un
lungagnone dinoccolato e dallo sguardo triste che faceva il postino, abile ad
insinuare dubbi.
Quando
feci riferimento al Capitano nessuno mostrò particolare interesse, era troppo
lontano, non arrivava mai laggiù, affermarono all'unisono un paio di ragazzette.
Edgardo,
il postino, strinse le labbra: - Sono ben altre le cose che ci preoccupano in
questo paese, vero Don Carlo?
Il
prete tacque, neanche lo osservò, le gote s'imporporarono appena, le dita
corsero ai capelli.
Io
chiesi delucidazioni più per cortesia, data la stanchezza, che per reale
curiosità.
Edgardo
mi rispose, ma nemmeno feci caso a ciò che disse.
Don
Carlo mi diede da mangiare e un letto per dormire. La sera, al mio risveglio,
qualcuno mi parlò di un certo Nocciolina, mi raccontò di qualche cosa che gli
era successa, ma io ascoltai intorpidito, annoiato. A metà della storia mi prese un desiderio che apparì sparì in un lampo, e mi allontanai, da chi mi
parlava, con poca educazione.
Passeggiai
straniero per le strade finché le gambe mi tremarono. Tornai così nella
celletta che il mio amico mi aveva messo a disposizione, nel convento quasi abbandonato,
all’uscita del paese; lessi qualcosa al lume di candela e poi un balenìo, un'’immagine, alcune
parole di Edgardo: - Questo è un paese maledetto.
Scivolai
in un dormiveglia putrido d’incubi, stritolato in una morsa che comprimeva il
respiro: penzolava impiccato al ramo di una quercia un uomo smagrito, con un
pizzetto che somigliava alla fiammella di una candela all’ingiù e la smorfia
del viso forzata in un sorriso quasi compiaciuto. Io dov’ero? Solo le mie urla,
solo quelle. E correre, correre, correre. E, rovesciata in una scarpata, una
ragazza nera piangeva e buttava sangue dagli squarci della pelle. E ancora
correre, correre, sempre più forte, fin dove non si può arrivare.
Mi
alzai scosso dalle mie grida, lavai il viso, sfregai le palpebre con virulenza,
acqua e sapone in quantità, per strappare dagli occhi i fantasmi che m’avevano
straziato fino ad un attimo prima.
Più
tardi ripresi a respirare con regolarità e stetti per un pezzo a guardare il
mio volto riflesso nello specchio. Fu un rumore che giudicai insolito, nel
cortile, a spingermi ad uscire dalla celletta.
Fuori,
non un alito di vento turbava la monotonia della notte.
M’incamminai,
senza sapere che cosa cercassi, finché non scorsi Don Carlo seduto per terra,
le gambe incrociate, lo sguardo fitto alla luna.
Lo
salutai, si voltò e mi chiese, con un’aria di rimprovero affettuosa, come mai
non dormissi.
Mi
sedetti vicino a lui con imbarazzo euforico, inventai
qualcosa; poi confessai che le parole di Edgardo mi ritornavano in mente, non mi davano
tregua.
-
Ti vuoi confessare? - sussurrò, allora, don Carlo, la voce sottile, gli occhi
forse caldi di lacrime.
Guardai
la luna: era uno schiaffo a quel cielo drogato di morte.
-
Confessarsi fa bene, sentirsi assolti aiuta - continuò cordiale.
-
Io ho solo bisogno di essere condannato.
-
Essere assolti o condannati: non è lo stesso?
Scossi
il capo incredulo: - Proprio lei, un prete, viene a dirmi queste cose?
Il
suo volto nel morbido dei lineamenti si contrasse appena, le dita disegnarono
cerchi sulla sabbia.
C’era
una volta una suora, Cecilia, cominciò sottovoce, giovanissima, devota e
protagonista di pomeriggi tutti uguali a recitar preghiere, a condannare il
mondo da lontano. E c’erano inverni miti e primavere di pace, terra da
coltivare e sorelle con le quali condividere la clausura e un lettuccio grande
più del mare che, il rosario intrecciato fra le dita, ci si poteva perdere,
lasciarsi andare, innamorarsi di Dio sempre di più, della sua somma grandezza.
E c’era il vento che se soffiava forte era compagnia, mentre nelle scodelle la
minestra era del buono di sua madre - quante carezze sulla fronte quando la
febbre faceva di fuoco la pelle - e i muri odoravano di protezione e purezza. E
i corridoi lunghi del convento, bianchi come l’alba al primo risveglio,
giardini di rose da accarezzare, profumo di frutta da non poter resistere.
La
Superiora era anziana, ossuta come i gatti in amore e dall’incarnato spento,
mai confortato dall’eco dei suoi sorrisi; attenta, sempre attentissima con
Cecilia e le altre, pronta a risolvere con saggezza qualsiasi intoppo. Eppure
lei, Cecilia, non aveva mai avuto l’ardire di chiederle perché non potessero
dir messa ed essere uguali di fronte a Dio, sebbene fossero donne, e prima di
dormire, dopo il rosario, il pensiero correva a quelle domande nascoste nel
cuore. E i mesi si usuravano, arrendevoli alla serenità e alla speranza, finché
qualcuna disse a bassa voce che nel paese vicino il vecchio prete avesse reso
l’anima al suo Fattore, proprio dopo aver compiuto novant’anni, e che si
aspettava un novizio che, di lì a poco, lo avrebbe sostituito.
Una
mattina la Superiora chiamò e gridò il nome di Cecilia a squarciagola, nessuno
l’aveva vista dalla sera prima, la cella era vuota. E tutte piansero quando sul
roseto furono rinvenuti il velo stracciato e la sua mantella, e una disse che
il demonio l’aveva rubata perché era la migliore di tutte loro. E le ricerche
proseguirono ma di lei non si seppe mai più nulla.
Una
volta trepidarono quando trovarono un cadavere, ma era quello di un giovane uomo,
nudo, irriconoscibile poiché il fuoco gli aveva cancellato il viso. E lentamente
ognuna si rassegnò, Cecilia era per sempre perduta.
Quand’ebbe
terminato, Don Carlo sospirò e, senza voltarsi, mi chiese che cosa pensassi di
Cecilia.
Poggiai
una mano sulla spalla del mio interlocutore e dissi che quella ragazza, adesso,
non dormiva sonni tranquilli.
Raccolse
un filo d'erba, lo lasciò cadere pochi istanti dopo e subito il vento lo
aggredì, lo imprigionò, lo trascinò via.
Passo espunto da L'uomo che lottava con i cani
Bellissimo. Ricordo ogni particolare di quella giornata luogosa. Ma rileggerla con queste parole rende ancora più vivida quella sensazione di freddo improvviso.
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