Il filo dell'orizzonte: Antonio Tabucchi


Il filo dell’orizzonte segue di due anni Notturno indiano e si presenta come un punto di svolta nell’itinerario artistico di Tabucchi. Si tratta di un ritorno al romanzo privo di prospettive rivoluzionarie ed enfatiche variazioni di stile in cui l’indugio descrittivo è abnorme, quasi come se le pagine subissero un processo ibernativo, a causa del paralizzante senso di morte ristagnante in tutta l’opera. 
La storia si svolge in una città di mare dai connotati mortuari, quasi fosse sopravvissuta al diluvio universale, corrosa dal tarlo della disgregazione e dall’inquietudine in cui Spino, l’addetto all’obitorio, va alla ricerca dell’identità di un giovane cadavere. Gli stilemi del poliziesco vengono assunti in chiave esplicativa del reiterato esperire la morte da parte di Spino. La colonna sonora della narrazione è lo scatto metallico prodotto dai cassetti delle celle frigorifere in cui sono custoditi gli uomini che non vivono più. 



Il filo dell’orizzonte è un «romanzo sul cerimoniale della morte, danza macabra sull’esistenza»[1] in cui si perde la distinzione fra i vivi, i morti e la coscienza stessa del protagonista, del suo vivere e del suo morire. Si tratta di aspetti ricorrenti nell'opera di Tabucchi.

Spino, infine, fra l’obitorio, il cimitero e l’informe massa d’acqua che lo circonda, si mostra come un consapevole cugino di Gustav von Aschenbach di Morte a Venezia, rinviene le tessere musive che compongono il puzzle della distruzione che, anticipandosi negli altri, marcia indefessamente anche verso di lui.




[1]    Pezzin Claudio,Tabucchi, Sommacampagna, Cierre, 2000, 61.

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