Quando la mia maestra mi chiamava mafioso

 Piccolina, con le scarpette con il tacco, pia, devota e per cinque anni sempre pronta a schiaffeggiarci e a tirarci i capelli quando non capivamo qualche cosa o chiacchieravamo: era questa la mia maestra. A dire la verità era già allora politicamente corretta: malmenava, infatti, solo noi maschietti perché, diceva sospirando, le femmine non si toccano nemmeno con un fiore.

Ad animare il suo innovativo metodo didattico in quel quinquennio 1983-1988 erano i suoi furori religiosi. Mentre ci picchiava, infatti, invocava i santi: Santu Paulu beddu, Santa Maria, Sant'Antoni meu e Santa Rita da Cascia. In realtà quest'ultima, per me, era la più temuta perché mi pareva che le affiorasse alle labbra nei momenti di maggior furore e le trasformava le manine in pezzi di marmo. Noi avevamo imparato a nasconderci il capo fra le mani, soprattutto per difenderci i capelli e le orecchie, da lei sempre presi di mira con perizia feroce.

Ma non è questo il punto. A me, a noi, credo, pareva normale il suo modo di approcciarsi così con dei bambini. Eravamo, infatti, abituati, direi che ci aveva educati alle botte. Ma, ripeto, il punto per me era un altro, perché quando capitavo io a tiro dei suoi ceffoni a me urlava:- Mafioso!

Eh sì, io avevo una grave colpa per quella donna tanto devota e pronta a pregare per un mondo migliore: ero diverso, ero figlio di un siciliano. Notate la raffinata equazione: siciliano uguale mafioso. C'è dietro un immaginario, un mondo 'culturale' evidente di profondità estatica.

Io, però, devo ringraziare lei e quelli come lei (mi riferisco ai compaesani che di notte ci facevano telefonate anonime per dirci che eravamo una famiglia di mafiosi) se ho iniziato a guardare con stupore il mondo degli adulti. Da bambino, insomma, cominciavo a capire che intorno a me esisteva qualcosa di strano e che io ero diverso dagli altri. Non mi sentivo amareggiato particolarmente, è chiaro che mi dava fastidio, ma allo stesso tempo quella situazione mi ha forgiato: io ero fieramente di un'altra pasta, me lo diceva la mia maestra quando mi picchiava; non era forse così? Quindi per temperamento ho iniziato ad avere rabbia nei confronti dei luoghi comuni, degli intolleranti, dei buoni borghesi bravi a pregare e a ben apparire ma poi marci dentro e via via delle patrie, delle bandiere, degli inni nazionali, delle comunità 'sane' e via discorrendo. Insieme alla consapevolezza di essere altro rispetto al contesto e alla rabbia ho iniziato a coltivare la sensazione che il mondo degli adulti e la realtà borghese siano dominati dall'assurdo: una pagliacciata, insomma.

Non mi sono mai sentito, però, un perseguitato, né sfortunato; al contrario. Avevo la fortuna, sin da piccolino, di uscire dalla Sardegna e di viaggiare e mi accorgevo quanto dietro la mentalità della mia maestra e di molti arzachenesi per bene ci fosse un asfittico e intollerante orizzonte oscurantista da compatire, prima ancora che da disprezzare. E poi avevo l'esempio di mio padre che mi dava forza.

In questi giorni mi torna in mente quel periodo della mia infanzia. Non ho acredine nei confronti della mia maestra; la vorrei, anzi, ringraziare perché mi ha aperto gli occhi e mi ha incoraggiato a essere quello che sono, controcorrente, dalla parte di chi si sente diverso. Ha inoltre, indubbiamente, contribuito a innescare in me l'idea che il perbenismo sia di facciata e vada sempre irriso.

Se sono quello che sono è forse anche merito di chi mi ha 'voluto' così sin da bambino.

Gli adulti hanno sempre ragione: specie quando hanno tante certezze incrollabili.



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